Andrea

Andrea:

 

Tante, tantissime mail arrivate, quasi impossibile rispondere a tutte; qualcuna è più interessante delle altre, qualcuna intrigante, altre, purtroppo, volgari. E nello slancio di provare le fantasie che voi mi proponete, con l’idea di farvi sognare diventando in un’occasione l’oggetto reale e concreto delle vostre fantasie, cerco di spingermi sempre un tassello più in là.

Sono rimasta colpita da una mail di Andrea, sospesa, come diceva l’oggetto della mail, anche se inizialmente ho rifiutato l’offerta: quella di posare per lui, nuda, per foto e per disegni. Normalmente queste fantasie hanno sempre un retroscena più… come dire… sessuale! E quindi, no grazie.

Però le mail sono andate avanti e Andrea si è dimostrato una persona interessante e quindi ho accettato, almeno, di incontrarlo per parlarne a voce. Decidiamo dove (in una piccola città di provincia), quando (pochi giorni dopo), stuzzico la fantasia chiedendo come vestirmi; mi viene risposto che potevo vestirmi come volevo, ma che si vedesse il corpo, insomma niente maglioni larghi stile Bridget Jones, ma non sono decisamente il tipo. Unica nota, una rosa rossa attaccata alla borsa, per farmi riconoscere.

Ed eccoci nella piazza del paese. La rosa in bella vista permette ad Andrea di riconoscermi subito ed avvicinarsi. Mi stringe la mano; un uomo nulla di speciale, ma sorride spesso. Seduti al bar, prendendo un caffè con calma, mi spiega cosa vuol fare, uno studio sulla luce, su linee leggere per accennare il corpo, senza disegnarlo davvero, come se il corpo diventasse una linea sola, leggera, erotica, aria.

Ok, mi hai convinto Andrea. Accetto e ci vedremo fra qualche giorno in una casa che ti presta un tuo amico, e speriamo che tu sia quello che dici di essere. Il mio corpo dedicato ad occhi ed obiettivo. Non è la prima volta che mi espongo ad una macchina fotografica, ma è la novità il farlo come oggetto di studio.

Mi preparo per l’occasione, poco trucco, intimo nero (reggiseno a balconcino e perizoma minimal), calze autoreggenti, stivali con tacchi alti ma non troppo, tacchi 8, una gonna rossa larga alla base, un maglietta blu con dei fiori rossi e sopra un cappotto. Sono pronta, salgo in macchina e vado. E confesso che mi sentivo emozionata, ed anche eccitata; emozioni miste non a paura ma sicuramente a timore.

La strada che porta alla casa è asfaltata da poco; ai lati l’asfalto si sgretola sul prato. E’ ancora mattina presto e c’è nebbia, che trasforma il sole quasi in una luna più calda del normale. Quasi romantico.

Quando arrivo davanti alla casa vedo Andrea seduto su di una sedia, sigaretta in mano, tranquillo, sotto un albero solitario, rosso dell’autunno. C’è un profondo silenzio, dopo che ho spento il motore della macchina.

Andrea mi raggiunge in jeans e maglietta e una felpa aperta sul davanti; ripeto che non è male. Mi squadra, piegando leggermente la testa. “abbigliamento interessante. Colorata. Mi piace”. Ed entriamo. Mi offre un caffè che rifiuto, preferisco mettermi subito al “lavoro” per allentare la tensione che sento. Andiamo in una stanza vuota, muro bianco, un paio di faretti molto artigianali, una sedia e una bella macchina fotografica poggiata su di un tavolino.

Lo guardo, mi chiedo dove posso spogliarmi per cominciare. Mi risponde che c’è tempo, che cominceremo con i vestiti addosso, giusto senza il cappotto che appoggio sulla sedia.

“Allora, io sto qui davanti. Scatterò fotografie, mi sposterò, ballerò un po’ una danza strana. Tu fai lo stesso, ti metto un po’ di musica. Cosa ti piace?” Scegliamo insieme la musica e partiamo.

Io lo guardo. “Non guardarmi. Non guardare l’obiettivo. Muoviti come se io non ci fossi”. Resto impalata. Forse è una cosa seria. Spegne la musica. “Ti piace ballare?” Si, mi piace. “Balla!”

Riparte la musica, cerco di farmi entrare dentro quel Jazz morbido e caldo. Tolgo gli stivali. Sento la macchina fare scatti, mentre mi piego. E tolgo anche le calze, perché preferisco ballare con i piedi nudi. E sento altre foto. Da destra, da sinistra, non sto facendo uno strip, sto solo togliendo le calze. Senza alcuna intenzione sexy. Ma mi piace sentirmi fotografata la gamba nuda dalla coscia in giù.

Adesso ci sono. Lo vedo sorridere con la coda dell’occhio. Ci sono, ci siamo.

Mi rifermo, chiudo gli occhi, lo sento vicino, sento la macchina vicina. E comincio a muovermi al ritmo della musica, lentamente. E sento anche lui che si muove. Apro  gli occhi e l’ho davanti, li chiudo e li riapro e sta sulla mia destra, di lato. Metto la mano fra i capelli e mi muovo. Adesso voglio essere sexy e lo so che lo sono. So di esserlo e di poterlo essere. Lo rivedo sorridere con la coda dell’occhio. Finisce la canzone, ne comincia un’altra. E un’altra. Sono ancora vestita e non ho idea di quante foto avrò fatto. Tolgo la maglietta, alla fine sono qui per questo. “Perfetto” sento. Mi metto la maglietta sul viso, mi copro. “Mi piace”. Continuo a muovermi, sento che sposta le luci, le accende, chiude la persiana, è tutto più scuro senza essere buio. La macchina scatta. “muoviti lentamente, con meno luce le foto vengono più mosse”. Così mi muovo lentamente mentre tolgo la gonna, e sorrido, mi sento libera. “Non ti fermare, continua”. E ballo, adesso sono in intimo, mi piego, ballo, mi muovo, a scatti e poi lentamente, e poi uno scatto. Riapre le persiane, accende più luci mentre mi tolgo il reggiseno, questo non se lo vuole perdere, lo vuole vedere bene, anche lui è eccitato, e anche io. Mi piace questo gioco. Scatta fotografie, avvicinandosi ed allontanandosi. Ma tanto con lo zoom non saprò mai cosa sta fotografando. Mi metto di schiena, poggio le mani al muro. È sotto di me, sotto le mie braccia, mi fotografa da sotto, fotografa verso il viso, non verso il bacino. Si risposta e io senza spostarmi troppo porto le mani sul perizoma e lo abbasso, lentamente. La macchina impazzisce. Mi lego il perizoma sulla mano, faccio un nodo, la mano sembra fasciata. E intanto gli scatti fotografici, ma dal lato. Non mi sta fotografando le mie parti più intime. Sta fotografando il mio corpo. I miei movimenti. La mia eccitazione. Sono bagnata. I liquidi scendono sulle mie gambe. E lui fotografa i liquidi, forse. Senza toccarmi ma entrandomi dentro.

Adoro questo momento. Comincio a toccarmi, l’eccitazione è troppa. Mi piego a terra, mi inginocchio, mentre la mia mano, fasciata del perizoma, aumenta la stimolazione sul mio clitoride e dentro di me. Inarco la schiena, alzo il viso verso l’alto, ed arriva l’orgasmo, con la mano stretta fra le cosce. Apro gli occhi, Andrea è sopra di me, a fotografare il mio viso. La sua erezione è ben visibile, coperta dal jeans, a pochi centimetri dalla mia bocca.

La musica si spegne. Si ferma la macchina fotografica. Andrea si allontana.

“Bellissimo”.

Quanto è passato? Guardo l’orologio alla parete, due ore. Sono nuda. Lui è vestito, come prima. Jeans e maglietta, sudato. Soddisfatto.

Per oggi basta. I disegni li facciamo un’altra volta. Ora studio le foto. Ti aspetto in cucina per un caffè.

Mi rivesto. Solo la gonna e la maglietta. Calze e reggiseno li lascio dentro quella stanza. Magari li riprendo la prossima volta, forse. Magari no. Non mi interessa.

In cucina lascio ad Andrea il perizoma. Ringrazia, lo annusa, e lo mette sul tavolo.

Dopo il caffè riparto verso la mia città, lasciando quella piccola eccitante realtà di provincia. Il sole è più alto e decisamente più caldo. E’ tornato ad essere il sole.

La strada d’asfalto è liscia come un velluto. Mi ricorda me stessa. Solida, dritta e sinuosa. Con i bordi che si sgretolano nel prato, la mia realtà che si sgretola nella libertà delle mie fantasie.

 

Era passata una settimana dal pomeriggio passato in quella casa in campagna, una settimana passata a pensare a quello che era successo e soprattutto a quello che non era successo.

All’impressione di avere quella macchina fotografica puntata sopra il mio viso al momento dell’orgasmo, sentirmi così nuda in un momento in cui avevo quasi dimenticato di essere davanti ad un obiettivo. Forse la naturalezza, forse la musica jazz in sottofondo, forse il trasporto che il mio corpo mi aveva concesso avevano inciso così tanto da farmi dimenticare dove ero.

Ma dovevo anche ammettere che Andrea si era comportato come aveva promesso. O quasi. Aveva detto che non avrebbe fotografato direttamente il viso. Ma sapevo che questo non era vero, avendo visto dentro lo zoom della sua macchina fotografica, e dietro lo zoom i suoi occhi. Ma sapevo anche, o credevo di sapere, che forse, avendo a pochi centimetri da me anche la sua eccitazione, che quelle foto scattate sopra di me erano sue, non per il suo studio, ma per i suoi occhi. E forse anche perché non mi stupiva affatto pensarlo in bagno a masturbarsi subito dopo che avevo lasciato quella villa.

Adesso era passata una settimana ed io gli avrei aperto la porta di casa per farmi disegnare. In un momento in cui ero sola, ovviamente, e in cui non rischiavamo di essere interrotti. Ma uno sconosciuto sarebbe entrato dentro casa mia, per disegnarmi nuda, per vedermi nuda. Forse anche più nuda che in altre situazioni, considerando che avrebbe avuto davanti ai suoi occhi non soltanto il mio corpo ma anche tutta la mia privacy, un qualcosa che non ho mai concesso ai lettori di milù. Avrei mostrato dal vivo a qualcuno l’eterno sorriso che ho dentro. E forse questa era la cosa più eccezionale in assoluto di tutto quello che stava succedendo.

Nonostante si stia avvicinando l’inverno il tempo quest’anno è molto clemente e quindi dentro casa mi permetto ancora un abbigliamento quasi estivo. Infradito ai piedi e pantaloncini corti, ma sopra una felpetta leggera, rossa e bianca, con dei puntini bianchi, per l’esattezza, con il cappuccio. E’ una specie di protezione, blanda, nei confronti di quello che sta per succedere.

Mentre aspetto che Andrea arrivi sto seduta in cucina, nella mia cucina, con un caffè macchiato con la panna. Cerco di combattere la paura con il piacere, quell’ombra di buio che ho dentro con il candore della panna.

Passano pochi minuti da quando ho finito di berlo, la tazzina sta ancora sul tavolo, senza piattino, sola ma ricca ancora di aromi, che il citofono suona. E’ Andrea, lo so senza chiedere, e quindi alzo la cornetta e dico il piano mentre apro il portone. Accosto la porta e vado a togliere la tazzina mentre lui sale.

Sento la porta aprirsi e chiudersi. Gentile come la settimana prima Andrea chiede se può entrare e io mi affaccio dalla cucina per farlo accomodare e gli chiedo se vuole un caffè. Accetta e mentre lo preparo mi chiede dove ci metteremo, e mi guarda, tira fuori la macchina fotografica e mi fa una foto. Questa la sento ancora più intima di quelle della settimana prima, ma non protesto. Non voglio protestare.

“In camera mia, dove ho il letto, almeno posso stare comoda”.

“C’è un tavolo?”. “Si”. “Ok”.

Poche parole, mentre beve il caffè mi guarda. So di piacergli. Ha un grosso zaino, dal quale spuntano un blocco di fogli e un astuccio. Indossa un paio di jeans, scarpe da ginnastica, una felpa e una sciarpa al collo. Una cosa è sicura, Andrea mette i colori a caso, ma insieme anziché cozzare stanno bene… forse perché li indossa con naturalezza.

Ci spostiamo in camera mia, mi metto sul letto, senza scarpe. Andrea tira fuori il blocco da disegno, tre matite e quattro-cinque gomme, quasi fosse Piperita Patty che si prepara ad un compito a scuola.

“Oggi cominciamo direttamente senza vestiti”.

Mi alzo, senza parlare, vado in bagno. Non mi va di spogliarmi a freddo, così, davanti a lui. Mi spoglio, per un attimo penso di mettermi un asciugamano attorno, ma poi lascio stare. E rientro nuda in camera, Andrea mi guarda, accenna un sorriso, di piacere, di soddisfazione, e io mi rimetto sul letto, a gambe incrociate, sapendo di esporre già tantissimo ai suoi occhi, ma sapendo anche di non esporre nulla che quest’uomo non abbia già visto.

La luce è morbida, attraverso le tende, e arriva sul letto. Mi sento a disagio ed a mio agio contemporaneamente. O forse sarebbe più esatto dire che al timore avvertito aggiungevo la follia derivante dall’eccitazione.

Mi guarda, gira attorno al letto, mi guarda da diverse angolazioni.

“Poggiati al muro, là, dove arriva la luce del sole, ginocchia al petto, braccia poggiate sul letto. Lascia le ginocchia libere, poggia la fronte sulle ginocchia”.

Mi sistemo come mi ha detto, si avvicina, mi mette le mani addosso, una cosa che l’altra volta non aveva fatto. Ho un primo impulso a ritrarmi, ma non lo faccio. E poi la delicatezza del contatto, privo di malizia, sposta il mio corpo nella posizione che voleva. Alla fine sono nuda, ma il seno è coperto dalle ginocchia e l’inguine dai piedi. Si vede tutto, ma non si vede nulla. Alzo, la testa, lo guardo, sorrido, anche in segno di sfida e poi poggio la fronte sulle ginocchia. In questo modo non vedo altro che dentro me stessa e chiudo gli occhi in segno di estrema fiducia. Sento la sua mano accarezzarmi il collo, e il mio corpo ha un brivido, perché so che in quella carezza la malizia non è affatto poca, anche se limitata ad una parte del corpo che, seppur sensibile come il collo, è spesso scoperta agli altri.

Resto immobile, i muscoli sono abbastanza rilassati in questa posizione. Lui sento che disegna, cancella, disegna, come una settimana prima sentivo gli scatti fotografici, ora sento i segni di matita. E il tempo passa lentamente e mi permette di pensare alla situazione, nuda, sul mio letto, davanti a qualcuno che è poco più di uno sconosciuto. E mentre il tempo passa io aspetto pensando a lui e pensando che quasi quasi al fine di tutto, me lo scoperà anche. Forse. Vedremo.

“Ok, il primo lo abbiamo fatto”. Alzo la testa appena appena. “Puoi muoverti, come ti pare, rilassarti. Sono  quaranta minuti che sei immobile. Complimenti”. Allungo le gambe e torno ad espormi, anche se mi sento più coperta di quando avevo la testa abbassata. Mi alzo, nuda, in vista, e mi avvicino al tavolo. E vedo il disegno.

C’è il mio corpo, o meglio, le mie ginocchia, le mie gambe e le mie spalle. La mia testa è una macchia scura. Le mie braccia appena accennate nella loro metamorfosi in ali che mi circondano, senza spiegarsi al vento. Tutta la figura è inserita in altre linee, geometriche, precise, con una forma piramidale. E’ una pigna. Mi ha disegnato come angelo, seduto, malinconico, triste, all’interno di una pigna. Non colgo il senso. Neanche lui, gli è venuta così. Mi piace. È bello. Almeno questo, al contrario delle foto, l’ho visto. E mi ci ritrovo.

Mi alzo e vado a prendermi un bicchiere d’acqua e torno con un bicchiere d’acqua anche per Andrea. Mi ringrazia e mi guarda. Non so se mi ringrazia per l’acqua o per la mia nudità. Sicuramente la mia nudità non lo lascia indifferente.

Mi rimetto sul letto e lui mi da nuove indicazioni. La più classica delle posizioni. Sdraiata. Su di un fianco. La testa poggiata su di una mano. L’altro braccio morbido su di un fianco. Le gambe leggermente incrociate a livello delle caviglie. Si avvicina al mio viso, sposta una ciocca di capelli davanti ad un occhio e si risiede. E stavolta lo guardo mentre disegna. Lo guardo puntare il suo sguardo su di un punto, disegnare qualcosa, fermarsi tante volte, cancellare, ridisegnare. Per tempi anche lunghi sembra non guardarmi.

E’ incredibile però che mentre mi guarda, mentre mi fissa, o più precisamente fissa un punto solo del mio corpo, io mi senta non nuda ma spogliata. E guardata dentro la mia nudità. L’intensità con cui guarda la conosco. Appartiene anche a me, appartiene più alle donne che agli uomini in realtà. Ma solitamente quando guardo qualcuno in quel modo indosso occhiali da sole che mi proteggono, i miei occhi guardano senza essere visti. E anche se mi puntassero una macchina fotografica a pochi centimetri dal viso vedrebbero solo le lenti degli occhiali e non i miei occhi. Mentre io cerco la profondità ed il significato di ogni gesto.

Andrea sta facendo questo con me. Ma i suoi occhi sono scoperti, e quasi dolorosi sul mio corpo. Mi sento quasi imbarazzata, più di molte altre volte anche quando la mia nudità era più esposta ed è stata più violata. Anche quando decine di mani erano su di me ero più coperta e protetta, perché dentro di me ero io. In questo momento dentro di me eravamo in due, io e Andrea, e mi stava letteralmente scopando con un matita.

E dopo un po’, dopo un lungo tempo, che il polso che reggeva la testa mi stava quasi facendo male per la posizione, eccolo che si ferma, posa la matita, gira il foglio e mi guarda.

“Ne facciamo un ultimo? Ce la fai?”. Si. Ce la faccio. Certo. Chiedo la posizione. Mi si avvicina. Mi fa sdraiare sul letto, le gambe poggiate allo schienale. Una mano finisce dietro la testa, una finisce sull’addome, poco sotto l’ombelico, le dita aperte. Le gambe anche, aperte, poco ma aperte. Dall’alto si vedrebbe ogni cosa. Anche in questo caso mi fa una carezza, sulla guancia, sorride, mi chiude gli occhi. Mi ribello, li riapro, e lui ride. Ok. “Cercherò di metterci poco”.

E mentre disegnava e pensavo al primo disegno mi sentivo tranquilla ed effettivamente in grado di volare. Come se quelle ali mi fossero appartenute. Mi sentivo in questa posizione strana libera, con il tempo a disposizione per pensare. Come quando in un prato ci si mette a testa in giù per camminare sulle mani, si vede tutto al contrario, la testa si svuota dei pensieri cattivi perché pone se stessa davanti ad una prospettiva differente. Ecco, in quella prospettiva sentivo la libertà di poter volare, tranquilla, scivolando sopra un segno di matita, sospesa.

 

E sospesa, nel tempo più che in un altrove, ho chiuso gli occhi e ho cercato di rilassare tutti i miei muscoli, in una posizione altrimenti molto scomoda. E ho chiuso gli occhi, assecondando il gesto di Andrea di poco prima, e ho lasciato andare qualsiasi altra cosa, qualsiasi altra sensazione. Ho in qualche modo messo la testa sotto l’acqua, ho escluso tutto il mondo all’esterno. Concentrandomi su una me stessa interna.

Stavo vivendo la profondità del mio piacere dentro di me, del mio corpo, ne cercavo ogni parte, escludendo ogni sua esteriorità. Ho cercato di arrivare in uno spazio che forse potremmo definire la cantina del mio cuore e della mia testa. In una cantina si mettono insieme cose diverse, vini pregiati ed oggetti in disuso. Ho messo nella cantina del mio cuore i vini pregiati, i miei ricordi più belli, in particolare il mio presente con Alina, un ricordo a cui potevo decidere di dissetare il mio animo in ogni istante, accendendomi di calore. Ho messo nella cantina della mia testa i ricordi che non devono scivolare via, ma che sono soggetti ad analisi e non ad istinto; nessun ricordo merita di essere perso, ma alcuni meritano soltanto di esistere per evitare di commettere errori già commessi, anche con la triste consapevolezza di poter limitare qualcosa nella propria vita, perdere qualcosa, ma con la certezza, dall’altra parte, di poter sorridere guardando avanti.

Ero in questi pensieri persa, in questi ricordi compresa, quando ho sentito le mani di Andrea scivolarmi sotto il corpo, toccare la parte bassa della mia schiena, il suo corpo dietro la mia testa. Ho tremato per quella invasione, ma poi ho sentito le mani tirarmi indietro, per mettermi in una posizione più comoda, le gambe abbassate sul letto, sdraiata. L’invasione del gesto derivava dall’interruzione dei pensieri, non dalla violazione del mio corpo. Ho aperto gli occhi e mi sono trovata il viso di Andrea, sopra il mio, al contrario rispetto al mio, sorridente. “Abbiamo finito”. E dandomi una nuova carezza ha poggiato le labbra sulla mia fronte.

Non ho resistito, ho alzato le braccia dietro il suo collo e l’ho tirato a me per baciarlo sul serio. Provando la rara splendida sensazione del contatto profondo tra due labbra inferiori, un bacio più morbido, più intimo, più caldo, più sensuale, più estremo, più forte. Un bacio dolce, vero, privo di amore, certo, ma ricco di una docile tenerezza. Quando mi sono staccata, Andrea sorrideva ancora.

“Wow. Posso fare altro per te?”. Nella sua voce malizia. Ma io stavo bene così, sentivo una bellissima pace. Però ho risposto. “Si. Trovami un massaggiatore, che sono tutta rotta a forza di stare in posa”. Ero tornata in me, quel momento magico era finito in quel wow. Era delicato Andrea, ma aveva deciso di parlare, invece di saltarmi addosso, e farmi provare sul corpo la passione che aveva messo sul foglio.

“Te lo faccio io il massaggio. Anzi, di fatto, quello sarebbe il mio vero lavoro. Disegno e foto sono hobby, purtroppo. Li amo, ma non ci mangio. I massaggi mi piacciono e mi fanno mangiare”. Ho sorriso, indecisa. Indecisa tra un bel massaggio e tra consentire ad Andrea quello che non gli avevo concesso in precedenza, di sfiorarmi ovunque volesse. Non se lo meritava per il comportamento, se lo meritava per il resto. Ho accettato il massaggio.

Andrea ha aperto la sua borsa, ha tirato fuori una boccetta di olio, mi ha fatto sdraiare ed ha cominciato a far scivolare le mani sul mio corpo. Ma non c’era malizia, solo professione, un contatto che so riconoscere, una differenza che è troppo evidente per essere fraintesa. Però le mani scivolavano in una maniera dolce e fantastica sul mio corpo, cavolo è bravo, mi son detta, mentre sentivo la schiena rilassarsi. Qualche movimento che fa mi fa storcere la bocca, per il dolore, e lui mi spiega, e il fastidio diviene lentamente piacere. Ha ricominciato a girarmi intorno, come con la macchina fotografica, mi torna davanti al viso e noto, come già in precedenza, la sua erezione.

Sorrido, lo sfioro con un dito. “All’anima del professionale”. Lui ride, ma va avanti. Però adesso le sue mani sembravano differenti, forse una sensazione mia, un desiderio di volerle sentire differentemente. Mi ha fatto girare ed ha cominciato a massaggiarmi davanti, il collo, il seno, la pancia. La mia nudità non mi spaventava, sapevo di essere stata guardata ben più in profondità attraverso una matita. Le sue dita arrivano a pochi centimetri dal mio sesso, fremo. Mentre massaggia le gambe, ancora, sento le dita avvicinarsi di un niente al mio piacere, ma poi ritrarsi di nuovo, scivolando sull’olio, come io scivolavo tra i pensieri. Se avesse osato, forse sarei venuta in pochissimo tempo.

Ma ad un certo punto si è staccato.

“Finito. Rilassati. Io ti preparo qualcosa di caldo. Metto le mani nella tua cucina”.

Faccio di si con la testa. E aspetto qualche minuto ad occhi chiusi, mentre mi sento leggera. Quando mi alzo per andare in cucina mi accorgo che sono completamente unta di olio e decido di fermarmi prima nel bagno.

Apro l’acqua ed entro sotto una doccia semifredda, per raffreddare il mio corpo, mentre faccio scivolare il sapone sulla pelle, l’odore mi pervade, l’odore dell’olio profumato, l’odore del sapone, l’odore di me, e la mia mano, insaponata, scivola dentro di me. Andrea sta in cucina e io sto nel bagno, a masturbarmi. Sorrido dell’immagine e vengo, di quel piacere nascosto, di quel piacere insoddisfatto, di un piacere che mi riempie.

Lascio passare l’acqua sul mio corpo mentre mi riprendo dal mio orgasmo. Certamente non il migliore, ma intenso, calmo anche se rapido. Esco dalla doccia e mi asciugo velocemente. Ho allungato la mano per prendere un asciugamano, per coprirmi, poi ho pensato che non mi interessava, e l’ho lasciato cadere in terra. E sono andata in cucina, nuda, scalza, con i capelli ancora bagnati.

Andrea mi ha guardata, non ha parlato questa volta, ha allungato una mano sul mio viso, e con due dita è scivolato dalla guancia, al seno, al fianco. Poi mi ha preso una mano.

“non ho trovato il tè, ho preparato una camomilla”.

Sono scoppiata a ridere per il totale parossismo del momento. Andrea si è seduto sulla sedia. Io nuda mi sono messa in braccio a lui. L’ho guardato, gli ho dato un bacio, e poi ho preso la mia camomilla calda, ed ho cominciato a bere.

 

Dopo aver bevuto i primi due sorsi ho guardato nuovamente Andrea, di cui sentivo chiara e forte l’eccitazione premere sulla mia gamba, condizione naturale visto che ero completamente nuda in braccio a lui. Lo scrutavo mentre lo vedevo bere la camomilla, trattenendosi dal fare qualcosa, come fosse in prigione.

“Andrea, posso farti una domanda?”

“mm”

“Perché non mi scopi, come farebbero tutti quanti?”

Andrea si girò di scatto per sputare la camomilla calda in terra piuttosto che sul mio corpo, e scoppiò a ridere, e io con lui. Ma avevo deciso di aspettare una risposta, dovevo sapere cosa lo tratteneva dal saltarmi addosso, dal costringermi a masturbarmi in bagno. Dall’altra parte, quasi per principio, non avrei mai fatto io il primo passo nei confronti di un uomo che sembrava tanto reticente. Non mi piace, non mi piace proprio dover implorare di avere un uomo dentro di me. Dopo qualche secondo, finalmente Andrea raccolse le sue idee e cominciò a parlare.

“Vedi Xilia, tu hai costruito una casa accogliente attraverso le tue parole. Hai costruito una casa accogliente per tutti i desideri dei lettori di Milù. Coloro che possano avere un desiderio aprono la mail e ti scrivono, sperando che tu possa esaudirli, in qualche modo quasi certi che tu lo farai. Questa casa però è finta, è una piccola capanna, un rifugio distante. Noi abbiamo desideri che tu soddisfi, ma che soddisfi senza la nostra partecipazione diretta. E questo è fantastico, perché ci permette di immaginare, ma è anche triste perché noi sappiamo che quei desideri non li realizzeremo mai veramente. Tu incarni la realizzazione delle nostre perversioni, dei nostri sogni inconfessabili, della nostra fantasia. Tu sei quello che ogni uomo vorrebbe, e che forse ha sul serio senza saperlo. Forse se spingessimo le nostre vite al limite, come tu fai con la tua, avremmo le stesse cose, mentre per il momento dobbiamo accontentarci della tua illusione”.

Andrea mi fissava intensamente. Belle parole, belle davvero. Ero diventata una capanna, ma non avevo una risposta alla mia domanda. Alzai un sopracciglio, come per ripetere la domanda, come per invitare ad andare avanti.

“Se ti scopassi, come hai detto tu, ecco… smetteresti di essere immaginazione, smetteresti di essere un sogno irrealizzabile, e cercherei di avere quello che non potrei avere”.

“Andrea, quello che dici non ha alcun senso”.

“Forse. Forse ho solo paura. Penso che se ti muovi appena con il corpo su di me, potrei venirmi dentro i pantaloni. Magari questa è una ragione sufficiente per non scoparti. Voglio evitare questa figuraccia”.

Scoppiammo a ridere tutti e due. Come uomo era una frana, più bravo con le parole che con i fatti. E bravo anche con le mani che durante il massaggio mi avevano fatto provare una vibrazione profonda in tutto il mio corpo. Vibravo per questo ragazzo bambino, ingenuo, spaventato, insicuro. Insomma, un po’ come me che esorcizzavo le paure attraverso i racconti e sfidando me stessa in una realtà che però era anche riuscita a svuotarmi di ogni cosa. Tanto che adesso facevo quasi fatica a riprendermi le mie emozioni, anche se una compagna preziosa aveva dato luce ai miei sentimenti più profondi.

Andrea spezzò nuovamente le mie riflessioni.

“Poi, Xilia, ti avevo promesso disegni e foto, già ti ho baciata e sfiorata. Se vado oltre rischio di dover ricorrere in seguito ad un avvocato”.

Scoppiai a ridere per quel suo tentativo di spezzare la tensione, e cambiai in un secondo la mia decisione. Posai la tazza sul tavolo e poi posai la sua. Mi girai e cominciai a baciarlo sul collo, sul viso, con la passione che un uomo usa nei confronti di una donna. Se dovevamo farlo, a questo punto avevo deciso, l’uomo lo avrei fatto io. Presi le sue mani con le mie e me le portai addosso, volevo essere accarezzata. Mentre cominciavo a spogliarlo, che non era giusto che fossi soltanto io ad essere nuda. La rigidità di Andrea si spense in fretta, e le sue mani cominciarono a cercarmi. Adesso cominciavamo ad essere alla pari. Mentre gli slacciavo i pantaloni e scendevo sul mio pavimento per prenderlo in bocca, e per fargli provare il piacere di rompere un’idea e trasformarla in realtà, con la volontà di convincermi che la realtà è più bella, più ricca e rilascia più emozioni.

Quando tirai fuori il suo cazzo mi piacque, era grande, non immenso, non uno strumento di piacere infernale, ma era bello. Lo presi in bocca, senza aspettare, fino in fondo, e cominciai a diventare, per lui e solo per lui, veramente reale. Qualcosa ben più concreto di un illusione.

Tangibile. Tangibile come il suo scroto nella mia mano, come la sua chiappa sotto le mie unghie che gli strapparono uno sbuffo, come il suo sperma che improvvisamente mi si riversò nella bocca, appagandolo finalmente, e che ingoiai come sempre, perché mi piace e perché so che piace.

Alzai lo sguardo… sì, pareva fosse piaciuto anche lui.

Lasciai che si ritraesse lentamente tra le mie labbra, giochicchiandoci con la lingua per strappargli ancora qualche smorfia sorridente, poi mi alzai per guardarlo negli occhi, da vicino, nell’illusorio tentativo di leggergli dentro.

E mi stupì per l’ennesima volta, facendo ciò che nessuno dopo vuol mai fare: baciandomi. A lungo. Come fosse, come effettivamente fu, l’ultima volta.

 

“—J’y gagne, dit le renard, à cause de la couleur du blé.” 

 

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