Il segreto

Il cliente aveva tirato un paio di occhiate al mio fondoschiena, ben delineato nei jeans elasticizzati a vita bassa, ma non era tipo da provarci. Continuava a parlare di cifre e progetti aziendali anche mentre ci sedevamo al tavolo del ristorante sull’Adriatica. Il parcheggio fuori era stipato di camion, parecchi furgoni e qualche auto. Si mangiava bene e si spendeva poco. Senza scontrino ti scontavano un euro.

Io ero fuori luogo; coi tacchi alti, i miei orecchini a cerchio grande Trinity e la t-shirt Valentino troppo attillata avrei preferito qualcosa di più elegante. Ma sorrisi con classe, o almeno ci provai, mentre entravo.

Poco cavallerescamente il cliente si sedette con le spalle al muro. Mi accomodai quindi di fronte a lui dando le spalle alla sala e sapevo benissimo che qualcuno aveva già notato quanto la cintura dei miei jeans lasciasse scoperto. Ora avrebbero avuto tutto il tempo del pranzo per sbirciare.

Mentre mi chiedevo se la biancheria stesse facendo bella mostra di sé, e il cliente farfugliava qualcosa sui suoi dipendenti, lo vidi. Riflesso nella vetrata.

No, porca puttana, perché proprio lui? Proprio lì?

Mi aveva già vista e se la stava ridendo dietro le mie spalle, indicandomi agli altri suoi compari; un branco di trogloditi degni della peggior galera. Unti, impolverati e sporchi come bidoni d’immondizia in un cantiere.

Poi si alzò, spavaldo, mi venne dietro e si chinò su di me, ammutolendo il cliente.

“Ve’ chi c’è…” sibilò nel mio orecchio con quel suo maledetto ghigno reso ancora più odioso dallo stuzzicadenti.

Mi irrigidii di colpo sentendo i suoi pollici contro la pelle dei miei fianchi. Li infilò nei jeans. Spinse con forza verso il basso; mi stava spogliando.

Stavo per reagire, ma il suo fiato alla nicotina e caffè mi ringhiò: “Lascia fare o spiffero tutto”.

Non potevo permettere che si sapesse. Dovevo assecondare questo dannato sadico. Altri mi avrebbero ricattata, chiesto denaro o magari sesso, ma lui no. Lui era più perverso.

Mi sfilò jeans e biancheria fino alle cosce, con decisione, poi se ne tornò al suo tavolo lasciando il mio sedere a contatto con il legno della sedia sudicia.

Sentii gli sghignazzi dei suoi amici, gli sguardi stupefatti, forse eccitati, degli altri commensali.

Se n’erano accorti praticamente tutti, tranne il cliente, che dall’altro lato del tavolo non era riuscito né a vedere né a capire. “Hai degli strani amici” mi disse.

“Non li chiamerei propriamente amici” risposi con finta disinvoltura. Molto finta.

Intanto uno dei trogloditi mi puntò addosso la videocamera di un telefono e cominciò a riprendere, spostandosi da una sedia all’altra del ristorante.

Il cliente ricominciò ad illustrare le sue teorie finanziarie, ma ormai non lo seguivo più. Lo guardavo in faccia e accennavo col capo, ma l’imbarazzo era troppo e avevo paura che non fosse ancora finita.

Li sentii confabulare, i miei non-propriamente-amici. Uno si alzò. Nella vetrata la sua espressione mi intimorì. L’evoluzione non sembrava aver funzionato molto con lui.

Mi si piazzò dietro. Ne sentii l’odore di ruggine e asfalto. Appoggiò una mano sulla mia spalla; sentii la forza delle sue dita sulla pelle scoperta del mio collo anche se non stava affatto stringendo. Erano mani capaci di fare male, e neanche poco.

Si chinò anche lui su di me. L’altra mano senza troppe gentilezze si fece largo tra le mie gambe.

Il cliente, che non vedeva cosa stesse accadendo oltre il bordo del tavolo, balbettò intuendo qualcosa, forse anche immaginando, senza bisogno di troppa fantasia, dove erano finite le braccia di questo energumeno.

Sentii alcune dita penetrare e il pollice piantarsi tra i peli. Stringendo la mano a pugno mi afferrò con violenza il pube.

Involontariamente chiusi gli occhi cercando di trattenere un gemito di dolore.

“Che troia che sei” mi sussurrò.

Aumentò la stretta e ruotò rudemente il polso facendomi davvero molto male.

“Ma, cosa…?” il cliente ebbe un moto di disapprovazione, ma dietro la sua cravatta era davvero ridicolo.

L’energumeno mollò la presa. “Tranquillo,” disse divertito, “chiedevo solo alla signorina qua se potevo favorire.” E indicò il piatto di verdure per il pinzimonio.

Vidi tornare quell’espressione sul suo volto. Afferrò una carota, con una mossa lenta e decisa la portò tra le mie cosce e la spinse dentro di me. Completamente.

Feci un urlo soffocato e mi morsi il labbro inferiore sentendo il freddo corpo estraneo essere premuto senza alcuna delicatezza in profondità.

Sentii anche le risate smorzate agli altri tavoli, gli sguardi di tutti e l’occhio della videocamera registrare tutto.

Poi la estrasse, la annusò compiaciuto e le diede rumorosamente un morso.

Lui, dal suo tavolo, si stava godendo lo spettacolo.

“E a te,” mi chiese, “ti piacciono i ravanelli?” Ne prese uno bello grosso per la radice. Me lo mostrò, poi la sua mano sparì dietro la mia schiena.

Lo sentii spingere sotto il mio sedere. Si fece strada con forza tra il legno e la mia pelle. La sua enorme mano mi sollevò letteralmente insinuandosi sotto la mia seduta.

Avrei voluto stringere i muscoli per impedirgli di passare fin dove avevo capito che voleva arrivare, ma sapevo che sarebbe stato peggio, mi avrebbe fatto solo più male; così lo lasciai fare, sollevai anche un po’ una natica per agevolarlo, e le grosse dita mi infilarono dentro, da dietro, l’ortaggio. Si assicurò che fosse entrato per bene e poi sfilò con la solita educazione la mano e se ne tornò al suo posto contento.

A questo punto pensai che lui fosse soddisfatto. Lasciando il ravanello dov’era mi tirai su maldestramente i jeans. Avrei voluto andare in bagno per togliermelo, ma sarei dovuta passare davanti a loro, così rinunciai, mi alzai ed uscii dal locale senza guardare nessuno in faccia.

Il cliente mi raggiunse. Non aveva abbastanza perspicacia per capire che avevo un ravanello infilato nel culo, aveva capito poco di quel che era successo di fronte al suo naso, pensò che fosse tutto passato e che si potesse proseguire coi nostri programmi come se non fosse successo nulla. Non avevo abbastanza energia per contraddirlo. Mi lasciai accompagnare tutto il pomeriggio per strade e aziende, con il mio ravanello.

A sera, finalmente nell’intimità del mio appartamento, mentre stavo per liberarmi del mio ortaggio, mi arrivò un link sul cellulare. Lo cliccai, una scritta mi chiese se fossi maggiorenne, affermai ed entrai in un sito di video pornografici. C’era il mio nome nel titolo e il mio viso all’inizio del video. Lo avviai. La scena si allargava, poi si soffermava sul mio sedere nudo in mezzo al ristorante. Mostrava le facce beffarde di chi mi stava osservando. Poi di nuovo su di me, imbarazzata, sul mio corpo scoperto. Dopo qualche minuto arrivò l’energumeno. Si vedeva bene quel che mi aveva fatto. La scena della carota. Diventai paonazza. Sia nello schermo che davanti ad esso. Vidi i miei sussulti, le mie smorfie. Il ravanello.

Il filmato finiva con un primo piano del mio fondoschiena mentre mi tiravo su i jeans. Nel sollevarmi di qualche centimetro dalla sedia per infilarmeli, si vedeva chiaramente, mentre la ripresa rallentava fino a fermarsi sul particolare, la radice fuoriuscire dal mio buco. Almeno si vede che ho un bel culo, pensai sgomenta fissando il fermo immagine.

(scritto con K. Poli)

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